Giuria federale della letteratura

Giuria federale di letteratura

La bocca del vulcano

A cosa serve la letteratura? Che senso hanno queste cattedrali del pensiero quando la realtà precipita nell’inimmaginabile? Bisogna veramente aggiungere parole al male imperante, contrapporre l’altrove alla disgrazia, raccontare la disperazione? A volte mi chiedo, come accade a tutti noi man mano che il tempo rimanente si restringe, se di fronte alla tragedia della nostra epoca rovente non dovremmo smetterla di avere queste conversazioni segrete con i sognatori ad occhi aperti, se non dovremmo chiudere i libri e affrontare l’inferno a testa alta. Leggere non è forse distogliere lo sguardo? Scrivere non è forse abbozzare altre righe rispetto a quelle che ci sono destinate, o tracciare un altro percorso rispetto a quello che dobbiamo inevitabilmente percorrere, nostro malgrado? Per quanto implacabile e insostenibile possa sembrare l’ordine costituito o il disordine che ci viene prospettato, è dignitoso aggirarlo cercando rifugio nei libri?

Già due secoli fa Hölderlin poneva l’eterna questione: «A cosa servono i poeti in tempi di miseria?». Non sapeva ancora che poeti e miseria avrebbero continuato a divampare insieme, eruzione dopo eruzione.

Tuttavia, continuo a tornare a quei conciliaboli a cui mi invitano i libri, e continuo a trovare risposte a quella domanda che minaccia persino la nostra stessa perseveranza nel vivere. E ogni volta mi rendo conto di quanto sia questo intervallo irriducibile, questa cesura che è un gioco tra il verbo e il mondo, a permettermi di sopportare la realtà. «Gettiamo nuovi ponti su vecchi abissi» scrive Klaus Merz in una poesia1; e noi, lettori e lettrici, li attraversiamo con passo leggero, sospendendo provvisoriamente i nostri tormenti, osservando dall’alto quello che il filosofo Philippe Lacoue-Labarthe chiama «l’immensa e insostenibile banalità della nostra epoca». Leggere quindi non è distogliere lo sguardo dalle fiamme profonde della realtà, ma camminare in equilibrio sulla bocca del vulcano.

I ponti che abbiamo attraversato con Francesca Baranzini, Christa Baumberger, Dominique Bressoud, Matthias Lorenz, Arno Renken, Elise Schmit, Niccolò Scaffai e Rico Valär ci hanno portato molto lontano, al di là dei confini svizzeri, talmente stretti che sembra si possano superare con un balzo, al di là dei generi e delle lingue, perché la letteratura svizzera esiste solo declinata al plurale. Su queste passerelle proiettate verso un universo immaginario ci siamo imbattuti in nuovi interrogativi. È possibile raccontare il proprio passato anche se non lo si è vissuto in prima persona? L’amicizia e l’assurdità possono trovare un’intesa e creare una nuova realtà? È possibile raccontare l’America in svizzero-tedesco? C’è un altro paesaggio dietro l’immagine della cartolina postale? È possibile incontrare un’antenata a distanza di secoli? Gli animali possono farsi messaggeri dei nostri ricordi? Si può raccontare la guerra con la voce di una bambina?

Sì. Sette volte sì. Ce lo confermano con audacia gli autori e le autrici che abbiamo deciso di premiare quest’anno, dopo mesi e giorni in cui ci siamo infervorati in letture e dibattiti. E dopo aver attraversato questi nuovi ponti ed essere infine ridiscesi nel cratere della realtà, abbiamo detto a questa «immensa e insostenibile banalità»: il mondo non finisce qui, c’è dell’altro.

Thierry Raboud

1 «Wir spannen neue Brücken / über alte Gräben», in Hart am Wind / Tout près du vent, Ed. d’en bas, pag. 215.